venerdì 17 marzo 2017

Una doppia vedovanza - Camere Separate, Pier Vittorio Tondelli




Io ho sempre voluto tutto Thomas. E mi sono sempre dovuto accontentare di qualcosa."


Pier Vittorio Tondelli, Camere separate


La lettura di Camere separate non è semplice. Si arriva alla fine stremati, prosciugati e con un vago senso di delusione nei confronti dell’amore.
Si potrebbe discutere se questo sia un libro d’amore o un libro sulla perdita. Io penso che sia entrambe le cose e che proprio per questo la lettura non sia così semplice.

La trama è essenziale: un uomo affronta la perdita del proprio compagno.
I personaggi sono pochi: abbiamo il narratore, Leo, uno scrittore di successo nato in un paesino della pianura padana che vive a Milano e viaggia per l’Europa. E poi abbiamo Thomas, un musicista tedesco con le idee confuse sul proprio futuro.
Il romanzo è diviso in tre parti, non chiaramente distinte, che dovrebbero rappresentare i tre movimenti di un brano musicale, ma la narrazione non è lineare e ci vengono proposti in ordine sparso stralci della vita del protagonista prima, durante e dopo la relazione con Thomas.
Il titolo del libro è dovuto ad un espressione usata dal protagonista per definire la sua relazione ideale: camere separate, ossia vivere insieme ma mantenendo i propri spazi. La relazione con Thomas funziona fintante che i due si vedono per viaggi, conferenze, occasioni sporadiche ma quando provano a convinvere finiscono per consumarsi a vicenda fino ad odiarsi.
E’ possibile che questa scelta sia collegata alla precedente relazione avuta da Leo con Hermann, un uomo incostante, inaffidabile e pericoloso che aveva portato Leo a separarsene nonostante il grande amore che provava per lui.
Ma se questo modello è adatto a Leo, alla luce del suo passato, non lo è per Thomas che invece vuole una presenza costante nella sua vita, qualcuno con cui condividere ogni singolo giorno nei suoi alti e bassi. Per questo ad un certo punto annuncia a Leo la sua relazione con una giovane ragazza che viene appena nominata e che Leo non conoscerà mai, pur provando una cocente gelosia.
Ma anche questo nuovo stato delle cose viene distrutto dalla malattia di Thomas, che arriva quasi all’improvviso e che non lascia a Leo il tempo di accettare la sua morte.
L’elemento che differenzia questo libro da altri affini è il modo in cui tratta il dolore.
Per la natura della loro relazione, scostante e imperfetta, gli amici di Leo non comprendono il dolore del protagonista.
Vitale per la comprensione di questo è un dialogo con uno dei suoi amici più cari, Rodolfo, posto quasi alla fine del libro:

“Thomas non è stata una grande storia, Leo” spiega. “Una personincina comune. Un musicista ben avviato alla carriera di fallito. Non sapeva chi era, né quello che voleva. Renditi conto che è più il tempo che stai impiegando a dimenticarlo di quello che hai effettivamente passato con lui. Potrei capire vent’anni. Una vita insieme. Ma perdio, Leo, è stato un flirt di tre anni! Uno qui e uno là. Avete vissuto insieme due mesi, tre, cinque a essere generosi. E tu stai perdendo la tua vita per qualche notte passata insieme a uno sconosciuto?"

E ancora, forse il passaggio più importante:

“Lui non era l’uomo giusto per te. E ti stai dannando proprio su questo errore.”
“Quale errore?”
“Che lui è morto, Leo. E tu no. Per questo lui non era il ragazzo giusto per te."


La negazione da parte degli altri del suo dolore impedisce a Leo di guarire. Thomas non era il compagno della vita, non avevano passato insieme la giovinezza, l’età adulta e la vecchiaia, eppure quel dolore che non dovrebbe neppure esistere non scompare.
Leo rimane un vedovo senza che nessuno gli riconosca lo stato di vedovo. Un doppio vedovo.
Questa tematica è altrettanto cara ad altri autori omosessuali, quella del non riconoscimento della perdita.

Per citarne uno su tutti, peraltro caro a Tondelli, Isherwood in Un uomo solo tratta di un uomo che, in seguito alla perdita del compagno, decide di uccidersi e il lettore segue assieme a lui la sua ultima giornata di vita, chiedendosi fino all’ultimo se si ucciderà o se sarà in grado di superare quel dolore.
Anche il protagonista di Un uomo solo subisce la sorte del doppio vedovo: nono essendo sposati, per ovvie ragioni, nessuno riconosce e accetta il suo dolore, nessuno va a fargli le condoglianze se non la sua amica più cara. Anche lui viene colto alla sprovvista dalla morte e anche lui, come Leo, non è neppure invitato ai funerali del compagno o accetato dalla famiglia.
Questi elementi lasciano aperta la ferita che è andata a crearsi, impedendo al protagonista di andare avanti.

E non è un caso che queste tematiche siano tanto care agli autori omosessuali, soprattutto uomini e soprattutto nel periodo degli anni ’80. Basta dare un’occhiata alle biografie di artisti, scrittori, attivisti gay di quel periodo per constatare il numero impressionante di decessi dovuti all’AIDS.
In quel periodo perdere un compagno a causa dell’AIDS era quasi la norma e al dolore si aggiungeva lo stigma della società che da un lato si rifiutava di ammettere il problema dall’altro lo considerava una “punizione divina” che colpiva gli omosessuali “promiscui”.
La causa della morte di Thomas non viene mai specificata, ma è possibile che sia da ricollegare all’AIDS. Ripensando poi alla biografia dell’autore, che nel periodo in cui si avviava alla conclusione del romanzo era ormai malato di AIDS, è possibile anche interpretare il finale del romanzo:


Ma fra qualche ora, fra un giorno, forse fra tre o cinque o vent’anni, lui sentirà una fitta diversa prendergli il petto o il respire o l’addome. Nonostante siano trascorsi tanti anni, o solo un’ora, ricorderà il suo amore e rivedrà gli occhi di Thomas come li ha visti quella volta. Allora saprà, con una determinazione anche commossa, disperata, che non c’è più niente da fare. Si avvierà alle sue cure, cambierà i letti negli ospedali, ma saprà sempre, in qualsiasi ora, che tutto sarà inutile, che per lui, finalmente, una buona volta, per grazia di Dio onnipotente, anche per lui e la sua metaphysical bug, la sua scrittura e i suoi Vondel o Madison, anche per tutti loro è giunto il momento di dirsi addio.


Camere Separate non è un romanzo semplice. Lo stile è complesso, curatissimo, la narrazione non lineare, l’introspezione è fitta e continua e porta a scavare nel profondo dell’animo del protagonista. Le tematiche poi sono così tante che non sarebbe possibile elencarle e trattarle tutte in una recensione (e molte probabilmente mi sono sfuggite alla prima lettura).
E’ uno di quei romanzi che prosciuga e si finisce la lettura stremati ed esausti. Ma è proprio questo l’intento dell’autore: dare al lettore un assaggio del peso che Leo deve portarsi.
E ancora la sensazione di non avere tutto ciò che ci spetta, di vedersi negati i propri diritti e insieme a quelli il proprio dolore, di volere tutto, come dice Leo, ma di doversi accontentare di qualcosa.


Irene

sabato 21 gennaio 2017

Un monumento postumo - The Opposite of Loneliness, Marina Keegan


We don’t have a word for the opposite of loneliness, but if we did, I could say that’s what I want in life.
Marina Keegan, The Opposite of Loneliness

Basta leggere la quarta di copertina per sapere cosa aspettarsi da questo libro.
La prima cosa che ci dice è che Marina Keegan, autrice del libro, è stata la migliore laureata a Yale del suo anno e che è spettato a lei l’onore di tenere un discorso, The Opposite of Loneliness, davanti ai suoi compagni. La seconda cosa che ci dicono è che è morta pochi giorni dopo la laurea.
Il libro è una raccolta dei suoi racconti e dei suoi articoli, raccolti e scelti dai suoi genitori con l’aiuto di insegnanti ed amici.
Il libro è ciò che sembra: una sorta di monumento alla figura della scrittrice, una ragazza senza dubbio brillante e con un brillante futuro davanti a sé. E di questo non dubito.
Ma basta questo a fare un buon libro?
Se l’autrice non fosse malauguratamente morta così giovane, il libro sarabbe stato pubblicato in questo modo? E soprattutto, avremmo avuto l’impulso di leggerlo?
Escludiamo tutte le introduzioni e le postfazioni (neppure un’edizione critica dell'Ulisse richiederebbe un simile supporto critico alle spalle) e discutiamo le tre diverse tipologie di opere che ci propone il libro.


The Opposite of Loneliness

La prima cosa che leggiamo di Marina è il suo discorso, lo stesso discorso che l’ha resa famosa anche al di fuori della sua università.The Opposite of Loneliness ha tutto ciò che deve avere il discorso di un valedictorian: è ottimista, fa ragionare, crea empatia con gli ascoltatori. E’ innegabile che la ragazza sapesse parlare bene!
Nel discorso lei discute di cosa significhi far parte di una comunità, come può esserlo un campus universitario e di quanto quegli anni passati a Yale siano stati importanti per lei soprattutto alla luce delle persone conosciute.
E’ bello, e importante, questo desiderio di creare una comunità e non è difficile capire perché abbia avuto tanto successo.
Il linguaggio usato è piano ma non banale. Come suggerisce una sua insegnante nell’introduzione, uno dei pregi di questa scrittrice è che scrive come una della sua età. Sebbene usi un linguaggio ricercato e una sintassi corretta, al lettore risulta scorrevole e naturale, al contrario di alcune prose artificiose che occhieggiano ai romanzi ottocenteschi.
The Opposite of Loneliness ha la forza necessaria a far arrivare le parole dell’autrice oltre i muri della sua università.

I racconti


Costituiscono forse la parte più corposa del libro.
I racconti hanno molto in comune tra loro, delineano già uno stile abbastanza preciso. Sono quasi tutti ambientati in luoghi comuni, popolati da persone comuni che vivono situazioni comuni. L’intento realista ben si sposa con il linguaggio utilizzato sia dal narratore che dai personaggi.
Le storie sono interessanti, alcune di più altre di meno a seconda del gusto.
Ho trovato particolarmente interessanti due racconti.
Il primo, Reading Aloud, ha una trama e dei personaggi quanto meno singolari. Anna è un ex ballerina in pensione che, annoiata in una casa vuota col marito sempre al lavoro, si dedica ad un’attività di volontariato: legge a voce alta per i ciechi. O meglio, per un cieco, visto che la maggior parte del suo tempo viene dedicato a Sam, un uomo di bell’aspetto che asseconda le sue fisime da ipocondriaca. E forse a causa del disinteresse del marito, Anna comincia a sviluppare una piccola perversione: mentre legge a Sam comincia a spogliarsi fino a rimanere nuda di fronte a lui.
Con premesse simili ha sicuramente catturato il mio interesse l’ho letto tutto d’un fiato fino alla fine. E no, non delude sul finale.
L’altro racconto che voglio segnalare è Hail, Full of Grace. La protagonista torna nel suo paesino per Natale dove ritrova la famiglia, il migliore amico e, suo malgrado, la sua vecchia fiamma. Questa volta però è diverso perché con lei c’è Emma, la neonata che ha appena adottato e che presenterà per la prima volta alla propria famiglia. Il racconto è incentrato per metà sul passato della protagonista e su ciò che le è accaduto e per metà sulle sue paure riguardanti il futuro e l’onere di crescere una bambina da sola. L’introspezione sui personaggi è interessante e mai banale e lo stile, come già detto, è molto piacevola.
Gli altri racconti sono tutti ben scritti senza però essere eccezionali. Forse quello che mi ha colpito di meno (e annoiata di più) è Emerald City, ma è solo una questione di gusto.
In generale i racconti hanno delle ottime basi che, con esercizio e qualche anno per maturare ancora, avrebbero potuto renderla una scrittrice interessante.
Non-fiction

Non mi è ancora chiaro cosa siano questi testi: saggi scolastici? Articoli di giornale? Pagine di un blog? Temi?
Non mi è neppure chiaro se la scrittrice avrebbe voluto vederli pubblicati in un libro o se sono stati infilati dentro per fare numero. Ma hanno un fondamentale difetto che li rende insopportabili: l’ego dell’autrice che straripa da ogni parola.
Anche quando il testo tratta argomenti di interesse comune si finisce sempre per parlare dell’autrice. In uno dei testi, Stability in Motion, Marina racconta della propria macchina e di quanto ci fosse legata. In un altro, Why We Care about Whale, parla del perché ci interessa tanto il destino delle balene ma, dopo una carrellata di dati, si finisce a parlare della sua esperienza personale e di un episodio in cui ha assistito allo spiaggiamento di alcune balene. E così via.
L’unico testo in cui non parla di sé, I Kill for Money, è così incomprensibile che ho capito di cosa parlava solo verso la fine.
La sensazione generale è non capire cosa ci si debba aspettare né quale sia l’intento dei testi: far riflettere? Informare? Raccontare una storia?
Mistero.
Il libro è ciò che ci si aspetta: un monumento, un modo per far rimanere la memoria di Marina Keegan e forse esaudire un suo desiderio, sebbene postumo.
Ma varrebbe la pena di leggere il libro se l’autrice non fosse morta così giovane?
Sì e no. Il discorso vale la pena. I racconti, sebbene non siano indimenticabili, sono al livello di molti libri pubblicati. La non-fiction può essere saltata in tronco.
Leggendo il libro non ho potuto fare a meno di pensare a ciò che avrebbe potuto scrivere, a cosa sarebbe diventata se non fosse morta. Se sarebbe diventata una grande scrittrice, o una brava giornalista o un’insegnate, oppure se sarebbe finita a lavorare in un ufficio grigio per il resto dei suoi giorni.
Mi piace credere che non sarebbe finita così, che i colori brillanti della copertina del libro siano uno specchio di come sarebbe stato il suo futuro e che, avendo qualche anno in più a disposizione, avrebbe potuto raccogliere e riordinare i suoi racconti e farli leggere al mondo.
Forse mi sarei imbattuta ugualmente in un suo libro. Forse mi sarebbe piaciuto davvero.

Irene

venerdì 20 gennaio 2017

Quo usque tandem abutere patientia nostra? - "Le Catilinarie" Amelie Nothomb



Tutto quello che posso dirti, Emile, è questo: mi sembra che anche se si desidera morire, uccidersi sia una prova spaventosa. Ho letto la testimonianza di un paracadutista: diceva che è il secondo salto nel vuoto quello che terrorizza di più.


Amelie Nothomb, Le Catilinarie, Voland, 1998



Ho preso questo libro perché adoro l'età repubblicana dell’antica Roma e volevo leggere un libro della Nothomb.

Non ho neppure letto la trama o qualche riga, l'ho preso dallo scaffale della biblioteca e sono tornata a casa.

Inutile dirlo: non parlava dell'antica Roma.


La trama è basilare: una coppia di anziani si trasferisce in campagna per vivere ciò che gli resta in tranquillità. La loro unica possibile interazione è col vicino, un medico in pensione, che si rivela essere la persona più sgradevole sulla faccia della terra. Si presenta a casa loro ogni pomeriggio dalle quattro alle sei – puntuale come una radiosveglia – e parla a monosillabi, uccidendo qualsiasi tentativo di conversazione. Ma il caratteraccio dell’ostile vicino è dovuto ad un segreto. Un grosso segreto che si cela nella sua casa.


No, non immaginatevi un horror, un thriller o un libro d'azione. Il libro rispetta in modo preciso il titolo: è un'esposizione della sapiente retorica del protagonista, il vecchio professore di latino in pensione, che descrive in modo aulico e per questo motivo assolutamente spassoso, la disavventura intrapresa col vicino.

Il modo in cui descrive le azioni del vicino – e della consorte – li fanno sembrare dei personaggi mitologici: lui un despota da detronizzare e sconfiggere a suon di retorica, lei una creatura sventurata condannata dal destino.

In tutto ciò è affiancato dalla moglie che, da brava matrona romana, appoggia e sostiene il marito nel momento della difficoltà. Eppure anche lei riesce a guadagnare il proprio spessore grazie ai motivi di disaccordo col marito. Benché sia descritta come una donna fragile, così piccola e magra da sembrare una statuina di porcellana, rivela un carattere capace di far testa a quello delmarito.


Il bello di questo libro non è la trama – e forse neppure i personaggi, che appaiono come maschere teatrali, finalizzati solo allo svolgersi dell'azione comica.

La genialità del libro è appunto la retorica, il modo in cui il protagonista si auto incorona successore dell'arpinate – autore con cui sicuramente aveva tormentato i suoi allievi al liceo – e come fa sfoggio di termini esageratamente ricercati per creare un contrasto con scene che banalmente avrebbero potuto essere descritte in poche parole – ma senza ottenere l'effetto analogo.
Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? sembra sempre sul punto di dire il protagonista, motivo per cui - suppongo - l’autrice abbia scelto un titolo tanto singolare.


E tuttavia, tra una gag e l'altra, abbiamo modo di entrare nella psiche del protagonista. La sua voce interiore lo mette a nudo e nel corso del libro impara lui stesso a riconoscere le proprie debolezze e di alcune arriva a provarne vergogna.

Il protagonista non ci viene presentato come un santo: il modo in cui si riferisce mentalmente alla moglie del dottore è quanto mai sbagliato, i pensieri che gli passano per la testa, le azioni che compie lo rendono tutt'altro che un personaggio perfetto, o un uomo dall'animo elevato.


Se il libro comincia come teatrino comico agreste, prosegue infittendo l'indagine psicologica di un uomo che si rende conto di non avere più niente, di aver studiato tutta la vita i grandi oratori ma di essere solo un omuncolo terrorizzato da un vicino impiccione.

E dalle parole si passa ai fatti. I pensieri del protagonista si trasformano in azioni e tutto il percorso psicologico porta all’unico finale logico, perfetto coronamento della decadenza del professore.


Le Catilinarie non è esattamente un romanzo appassionante, non è il tipo di libro che leggerei per rilassarmi e non pensare agli esami universitari (eh-emh), tuttaviase si è pronti a dedicargli un minimo di attenzione, si può rivelare una lettura quantomai originale che sicuramente lascia riflettere.



Irene

domenica 15 gennaio 2017

L’amore al tempo della crisi - "Greco moderno" Nikos Petrou



Avete presente quelle luci intermittenti che si accendono e si spengono? Ecco, Dimitris è così. Luce folgorante e buio pesto. Come il faro in fondo al nostro golfo. Era stato proprio Dimitris a farmelo notare un anno fa.


Nikos Petrou, Greco moderno, Synchro-High School, 2015


Sono incappata in questo libro un po' per caso, girovagando sul sito di una fiera del libro, e mi ha subito incuriosito.


La trama è semplice: uno studente universitario greco, Vasilis, è intrappolatoin una relazione complicata con un ragazzo, Dimitris, che lo chiama solo per fare sesso, ma che al mondo mostra la mano della fidanzata.

Il rapporto con Dimitris viene presentato fin da subito come uno di quegli amori malati in cui ci si crogiola, ben sapendo quanto siano sbagliati.

Mentre la Grecia è in piena crisi e gli studenti in subbuglio, Vasilis incontra Kostas, uno studente delle superiori all'ultimo anno, amico del suo cuginetto perfetto. E qualcosa scatta.


Il libro non vuole essere un capolavoro, non vuole trattare i problemi esistenziali della società o dell'essere omosessuali. E' la semplice storia di un ragazzo che si innamora di un altro ragazzo in un paese che – come in Italia – vede e non vede, accetta ma nasconde sotto il tappeto, non condanna apertamente ma neppure legalizza.

I temi trattati sono molti, che vanno appunto dall'omosessualità all’amore adultero, dalla crisi greca alle rivolte studentesche, dal male di vivere all'amore familiare.

La storia d'amore non è mai banale, non è scontata ma neppure volutamente tragica, per strappare una lacrima.


La parte però che più ho amato del libro è il rapporto fraterno che nascetra il protagonista e il cugino Nikos.

Vasilis, la prima volta che nomina il cugino, lo descrive come un noioso perfettino, troppo bravo per essere vero, perfetta nemesi di se stesso, che invece si dichiara la pecora nera della famiglia.

Nel corso del libro, i due hanno modo di conoscersi meglio e Vasilis cambia gradualmente idea su di lui, diventando una sorta di fratello maggiore per quell'adolescente spaventato dalla vita che si rivela essere Nikos.


Un'altracosa che ho apprezzato è il modo in cui Vasilis parla di Christina, la ragazza di Dimitris. Ovviamente una parte di lui la odia, la considera inconsciamente la strega che si è opposta al loro amore. Ma dopo aver parlato con lei, dopo aver ammesso a se stesso che il problema non era mai stata lei, il parere di Vasilis cambia, matura, e ancora una volta riconosce i propri sbagli.


La parte migliore del protagonista è che non è perfetto. Compie azioni meschine, elabora pensieri meschini, elargisce commenti meschini, ma ammette i propri sbagli, cerca di rimediare, china la testa quando c'è bisogno di farlo.

Questi, a mio parere, sono gli elementi base per un buon protagonista.


La parte peggiore del libro è lo stile. Non so se sia un problema ditraduzione/edizione (ho già letto parecchi libri di questa casa editrice e molti erano pieni di errori o con stili poco curati) o dell'autore in sé. Il linguaggio è molto (troppo) simile al parlato e a tratti risulta sciatto, alternato a momenti in cui invece mantiene un tono “alto”, con dislivelli di stile che non vengono giustificati in alcun modo.

Nonostante lo stile, il mio parere sul libro è positivo. Ha un punto di vista interessante, uno buono sviluppo e dei personaggi ben strutturati con molte sfaccettature.


Greco moderno non pretende di dare delle risposte. Non pretende di spiegare cosa sia giusto o sbagliato in amore, quale sia la strada da percorrere e quale quella di evitare.
Narra di un amore difficile e di uno necessario e di quanto sia difficile stabilire quale sia uno e quale sia l'altro


Irene

venerdì 29 gennaio 2016

Uno zombie letterario - "Orgoglio e pregiudizio e zombie" Seth Grahame-Smith



E' cosa nota e universalmente riconosciuta che uno zombie in possesso di un cervello debba essere in cerca di un altro cervello.

Seth Grahame-Smith, Orgoglio epregiudizio e zombie, Casa Editrice Nord, 2009

Prima che qualcuno mi dica “ma è una parodia, non va preso sul serio” io rispondo, sì, lo so.

Di base, io amo le parodie, i rifacimenti letterari, i crossover, le riscritture moderne. Sono dell'idea che la letteratura sia fluida e che si presti a riscritture e rimaneggiamenti non perché l'originale sia vecchio e stantio, maperché un bel libro ha dentro di sé un potenziale (quasi)inesauribile – sto parlando con te, Sherlock Holmes– e sono sempre favorevole e aperta a questi esperimenti letterari.

Perciònon sto dicendo che il problema di Orgoglio e pregiudizio ezombie siano gli zombie. Sare istata una stupida a leggerlo. E' come se avessi cominciato a leggereun libro sul beluga concludendo che era noioso perché parlava solodei beluga. E grazie tante.

No,il vero problema di Orgoglio e pregiudizio e zombieè che non ci sono gli zombie! O meglio, sì, gli zombie ci sono.Fanno qualche apparizione sporadica per poi venire decapitati dallaspietata Elizabeth e ritornare nella terra, ma sono determinanti perla trama? No.

Orgoglio e pregiudizioalla mano – quello originale – Orgoglio e pregiudizio e zombie è una riscrittura quasi perfetta di quello della Austin. Scena per scena. I dialoghi poi sono copiati parola per parola, cosa che mi fa sospettare che l'autore non abbia neppure scritto il libro. Ha preso una versione ebook dell'originale e, di tanto in tanto, ci ha aggiunto qualche zombie posticcio a sbranare qualche povero servo.

Il risvolto di copertina ce lo vende come una “fedele” riscrittura e con questa scusa l'autore giustifica la totale mancanza di un lavoro proprio. Non esito a supporre che possa essere stato scritto in una notte o due, tanto è scarso il lavoro originale.

Se,come dichiara l'autore sulla nota biografica, era rimasto tanto deluso da Orgoglio e pregiudizio quando l'ha letto all'età di quattordici anni, per quale motivo copiarlo parola per parola, lucrando sulla prosa geniale e tagliente della Austin?

Dall’inizio alla fine del libro ho sperato in qualche colpo di scena. Ho sperato in qualche sottotrama originale, qualche scontro serio con gli zombie… insomma, qualcosa che giustificasse l'inserimento degli zombie. Ma a quanto pare gli zombie erano solamente una scusa per poter dichiarare questo libro una parodia e liberarsi da qualsiasi problema di copyright. Un’operazione commerciale, insomma, anche ben riuscita visto che ora l'autore starà navigando nei soldi fatti con uno sforzo irrisorio.

Gli unici due sviluppi originali (ve li dico così potete risparmiarvi di leggere il libro: se avete letto l'originale avete letto anche questo) sono l'idea che Charlotte sia stata infettata, e qualche scontro ninja tra Elizabette e Catherine de Bourgh. Ah e il fatto che alla fine del libro Wickham rimanga paralizzato. Fine.

La trama di Charlotte sembrava promettere bene. Mi aspettavo una scena in cui Charlotte avrebbe tentato di mangiare il pedante Collins ed Elizabeth avrebbe dovuto decapitarla – non prima di averla lasciata banchettare col cervello del chierico. Invece niente. La fine di Charlotte viene liquidata con una lettera di Collins in cui dice che è stata uccisa da lui stesso. Sì, inventarsi qualcosa sarebbe stato uno sforzo eccessivo, sia mai che il signor Seth Grahame-Smith si guadagni i soldi che questo libro gli ha fruttato.

Indefinitiva il problema di questo libro non è che è sgradevole da leggere. Il libro è molto bello, ma non per merito dell'autore. Non c'è nulla di originale, addirittura i dialoghi sono stati copiati quasi parola per parola, vendendo l'operazione di copia incolla come una “riscrittura fedele” il che mi porta a chiedermi quanto potrei guadagnare riscrivendo Il giovane Holden in alfabeto farfallino.

Il risultato di ciò è uno zombie letterario, un libro che sta in piedi– non grazie all'autore – e che si aggira senza apparente scopo se non quello di far leggere Orgoglio e pregiudizio a quei geni che lo definiscono “un libro da femmine” e che forse verranno attratti da un po' di sangue e budella.

L’unica nota positiva del libro è che ho avuto modo di rileggere Orgoglio e pregiudizio e di innamorarmi una seconda volta del libro, di Elizabeth e Darcy e capire quanto questo libro abbia ancora tanto da dare e quante riscritture potrebbero scaturirne – purché non diventi una vacca da latte; sì, parlo ancora di te Sherlock Holmes – possibilmente con qualcosa di nuovo e originale e non semplicemente qualche zombie che spunti ad minchiam.

(l’idea dell'alfabeto farfallino è mia)

Irene

venerdì 9 ottobre 2015

Un Edipo orientale - "Kafka sulla spiaggia" di Murakami Haruki

Murakami Haruki, Kafka sulla spiaggia, Einaudi, 2008

Esistono libri che raramente consiglio o regalo, perché sono autori che o li ami o li odi e a stento riesci a finirli.
Kafka sulla spiaggia, e molti dei libri di Murakami Haruki, sono tra questi.
Se qualcuno mi dicesse “ho odiato questo libro” non mi sorprenderei, né proverei a convincerlo del contrario.
Tuttavia non posso negarlo: questo libro mi è piaciuto moltissimo. No, meglio, questo libro mi ha colpita.
Il bello – e brutto – di Murakami è i suoi libri sono un viaggio in balia della corrente: cominci a leggere senza sapere cosa aspettarti e finisci per farti trascinare via dalla narrazione, dai personaggi assurdi, dalle situazioni surreali. Se cerchi di aggrapparti, di cercare un filo logico, di rimanere a riva, il libro non può piacerti e rimarrà un'accozzaglia di elementi fusi insieme.

La trama si divide in due storie che procedono parallele e correlate, pur senza che i due protagonisti si incontrino.
Da un lato abbiamo Tamura Kafka – un ragazzino scappato di casa a quindici anni per sfuggire alla maledizione dai richiami edipici lanciatagli dal padre. Infatti, quando Tamura aveva quattro anni, la madre se n'era andata di casa con la figlia maggiore, lasciando il figlio in balia del padre che gli aveva predetto un destino analogo a quello dell'eroe tragico greco: avrebbe ucciso il padre e avrebbe fatto sesso con la madre e con la sorella.
Nella sua fuga da un destino che vuole certamente evitare, Tamura fa la conoscenza di una ragazza, Sakura – che richiama alla sua mente l'immagine sfocata che ha di sua sorella – un bibliotecario che dimostra più anni di quelli che ha, il signor Oshima, la proprietaria della biblioteca che diventerà il nido di Tamura, la signora Saeko, e altri personaggi meno rilevanti.
Dall'altro lato abbiamo il signor Nakata, un vecchio che da bambino, in seguito ad un misterioso incidente, perde la facoltà di leggere e scrivere per guadagnare quella di parlare coi gatti. In seguito ad un avvenimento oscuro e inspiegabile, il signor Nakata è costretto a lasciare la propria città e – spinto da una forza non meglio specificata – si avventura in autostop verso lo Shikoku al fianco di un camionista, il signor Hoshino, che segue Nakata senza sapere perché, anche lui spinto da un moto interiore inspiegabile.
La trama è complessa, spesso assurda, e molte questioni rimangono (volutamente?) aperte (come in altri suoi libri: Nel segno della pecora, o La ragazza dello Sputnik).
Ci sono elementi magici che i protagonisti accettano senza battere ciglio, come se fosse tutto parte di un piano più grande, di un disegno a noi oscuro ma ben progettato.

Ma passiamo all'aspetto che in ogni libro mi sta più a cuore: i personaggi.
La cosa che più ho apprezzato di questo libro è la sfaccettatura di ogni personaggio. Quando Murakami Haruki ci presenta un personaggio non lo fa finalizzandolo alla trama, ma piuttosto costruisce la trama attorno ai personaggi. I suoi personaggi non sono semplici pedine, ma hanno una loro autonomia rispetto alla storia.
Ne sono un esempio i dettagli che inserisce. Prendiamo il signor Oshima – che di tutti è il personaggio che ho amato di più. Il suo ruolo nella trama è importante dal punto di vista pratico (fornisce un posto dove stare al protagonista e lo aiuta in più occasioni) ma non sembra una presenza “pesante” all'interno della trama. Da quel punto di vista la signora Saeko – che pure appare meno – appare decisamente più importante. Eppure nel corso della storia vengono fatte delle rivelazioni su di lui – anche piuttosto eclatanti – che non portano da nessuna parte.
Questo aspetto della scrittura rende i personaggi tridimensionali, reali, e non semplici macchiette sullo sfondo di una trama fin troppo intricata.

Sul finale poi ci sarebbe molto – moltissimo da dire.
Io ho le mie teorie e con tutte le motivazioni del caso (ma sono aperta a qualsiasi discussione), ma il finale in realtà è così aperto da lasciare spazio a pressoché qualsiasi interpretazione.

Se qualcuno in libreria prendesse in mano Kafka sulla spiaggia e mi chiedesse “E' bello? Lo compro?” esiterei a rispondergli perché le probabilità che il libro non gli piaccia e che me lo tiri dietro sono alte (ed essendo 500 pagine di libro preferirei evitare).
Tuttavia non mi sento neppure di sconsigliarlo.
Se siete pronti ad “accettare la sfida” e a prendere per buone le mille assurdità di Murakami Haruki, allora prego, questo libro sarà per voi come un giro sulle montagne russe: non capirete cosa sta succedendo per metà del tempo, vi pentirete di aver accettato almeno due volte ma tornati a terra vorrete farlo ancora.

Che poi penso sia il motivo per cui continuo a leggere i libro di questo pazzo giapponese.

Irene

sabato 12 settembre 2015

Vorrei descrivere lo schifo - "Le anatre di Holden sanno dove andare" E. Garuti

Emilia Garuti, Le anatre di Holden sanno dove andare, Giunti, 2015

Vorrei descrivere lo schifo. No, perché davvero, ci tengo. Giusto per dare un'idea.


Pronto? Siete ancora lì? Posso andare avanti? Okay, allora proseguo.


Mi hanno detto che scrivere può aiutarmi a stare meglio. So che è difficile raccontare le cose astratte come l'amore, la fantasia o la sensazione di merdosa smielatezza che si prova in un momento di assoluta pace e che questo è il compito di quei sensibiloni dei poeti. Solo per fare un esperimento. Vediamo se riesco a renderla, l'idea...


Bene,questo era l'inizio del libro. Dopo questa entusiasmante introduzione, prosegue per due pagine e mezzo con un elenco in cui quasi ogni frase comincia con “lo schifo è” al termine del quale la tentazione di chiudere il libro e lanciarlo fuori dalla finestra è tremendamente forte.

Il libro io però l'ho letto tutto e, fidatevi, peggiora.


La trama, in due parole: una ragazza, dopo un tentativo di suicidio, trascorre l'estate post maturità altalenandosi tra la psicologa – che odia – il poltrire a casa osservata dai genitori – che odia – qualche giro in centro con le amiche – che mal sopporta – e una lunga serie di riflessioni su quanto tutto faccia schifo. Finché dalla sua psicologia non conosce un ragazzo, Matteo, che l'aiuta ad aprire gli occhi.


I problemi principali del libro secondo me sono tre.

Primo problema, il più evidente e insindacabile: l'uso smoderato di cliché.

I genitori sono dei borghesi snob che nascondono i problemi sotto il tappeto. Il padre si fa la segretaria (davvero? La segretaria? Ma la trama l'hai stabilita lanciando dei dadi?) e quando la madre lo scopre non divorziano ma fingono che nulla sia accaduto. Il padre si compra un cane che ama più della figlia. I suoi compagni di classe vengono descritti come: “le donne di mondo, i palestrati, i secchioni, i fattoni e gli unici simpatici” che guarda caso sono i suoi amici (che vengono nominati due volte in tutto). Quando vede una ragazza appena più bella di lei è insindacabilmente una troia, una facile. Rimarca il fatto che se una è figa è perché ci è nata ed è uguale a tutte le altre, fatte tutte con la stampo (probabilmente anche loro tutte troie). Tutto ciò che dice di sua mamma è che è una casalinga disperata che non l'ha mai neppure presa in braccio.

L’impressione è di vivere in Flatlandia e che lei sia la sfera che atterra nel mondo bidimensionale, unico personaggio con un certo spessore – ma anche lei non scherza come piattume. L'altro personaggio di una certarilevanza e che non appare come una figurina ritagliata dal libro di un altro è Matteo, ma anche lui viene descritto troppo poco esappiamo giusto che è l'unica persona decente sulla faccia dellaterra.


Il secondo problema è il linguaggio.

Il titolo vi farà facilmente intuire a quale scrittore si ispira la protagonista (ovviamente Salinger).

Il libro ha lo stesso impianto de Il giovane Holden (probabilmente uno dei romanzi preferiti dell'autrice) e più volte appaiono dei cameo nella trama (piuttosto piacevoli, lo ammetto).

L’autrice ha evidentemente voluto imitare l'uso del linguaggio parlato che Salinger ha utilizzato per il suo più celebre romanzo.

Beh,se a Salinger l'operazione è riuscita, a lei evidentemente no. Ci sono intere pagine in cui vorresti metterti le mani tra i capelli.

Io sono veneta e nel linguaggio parlato uso sempre l'articolo davanti al nome proprio femminile. Ma leggerlo su carta è l'equivalente disentire un gesso che stride sulla lavagna (probabilmente un lettore a sud del Po avrebbe bruciato il libro).

Usa frasi alla Federico Moccia (soggetto verbo complemento) che risultano a singhiozzo. Per essere una che più volte ripete di aver fatto il classico (sia l'autrice che la protagonista, quindi non ci sono scuse) e che vuole studiare Lettere all'Università (sia l’autrice che la protagonista, come sopra) meriterebbe una visitina dal signor Cicerone.

Non è l'uso delle parolacce che stona – contestabile ma per me accettabile – è la sintassi, l'uso eccessivo di forme tipiche del parlato ma che su carta danno fastidio, l'abuso di enumerazioni per rimarcare un concetto (vuoi descrivere lo schifo, sì, l’abbiamo capito). C'è un limite al numero di volte in cui puoi cominciare una frase con “ma” e “però”. Tu, cara mia, hai sforato quel limite entro il primo capitolo.

L’intero libro dovrebbe essere il diario che la sua psicologa le consiglia discrivere, ma anche qui alcuni capitoli sono scritti effettivamente come diario, altri sono una cronaca in prima persona presente di ciò che le accade e a meno che lei non vaghi per la città con carta e penna sottomano, l'autrice dovrebbe rivedere le sue scelte stilistiche.


Il terzo problema, che secondo me è il più grave (e su questo non si discute) è la superficialità con cui l'autrice tratta la depressione della protagonista.

Will si lamenta che i suoi l'hanno mandata da una psicologa invece che affrontare i problemi in casa. Il problema è che Will non ha semplicemente raccontato qualche balla ai suoi, saltato qualche giorno di scuola o fumato una canna. Will ha tentato il suicidio. Mandarla da una psicologa è il minimo.

Da molti dei suoi atteggiamenti, sembra che Will abbia la depressione: non vede futuro, è svogliata, passa molto tempo a letto, posticipa qualsiasi decisione.

Poi per due volte le viene un attacco di panico, ma va bene, prendiamo per buono che soffra sia d'ansia sia di depressione. Benché siano due cose diverse non sono incompatibili.

Fin dalle prime pagine del libro ho avuto la sensazione di sapere dove sarebbe andato a parare il libro, e non mi sbagliavo.

La depressione della protagonista viene “guarita” non dal lavoro congiunto di psicologa e medicinali, ma dall'eroe di turno: Matteo, ragazzo che ha visto morire il padre davanti agli occhi ma che non se ne dispiace perché il padre picchiava lui e il fratellino.

Ebbene sì, basta un giro in gelateria, uno all'università, un po' di sms e di uscite in città per curare la depressione della protagonista.

E no, non può essere che la protagonista fosse solo “un po' giù”. Nonpuoi prendere un personaggio, renderlo un potenziale suicida, depresso, con attacchi di panico, e improvvisamente viene guarito in un mese. No. Non puoi farlo.

Non capisco questa nascente passione per i personaggi con disturbi mentali. I disturbi mentali sono seri. Esattamente come sarebbe di cattivo gusto scrivere di una guarigione miracolosa e inspiegabile in un paziente malato di cancro, così lo è per un paziente malato di una malattia mentale.

Quindi i casi sono due: o la protagonista non era effettivamente depressa e tutto il libro era il piagnisteo di un'adolescente viziata, o l'autrice ha trovato più comodo rivestire il libro di temi seri e delicati senza avere la pazienza di informarsi.


Ma tralasciamo tutto ciò e veniamo al finale. Già, perché giunta alla fine, per quanto irrealistico e fastidioso, ero pronta ad accettare il libro come leggibile, se non altro.

Ma l'autrice ha deciso di uccidermi.

Ebbene, finito l'epilogo c'è un apparentemente innocuo PS in corsivo.

(SPOILER)

In questo PS la protagonista rivela di avere un altro disturbo per cui è in cura dalla psicologa, ossia che è una bugiarda patologica,lasciandoti intendere che tutto ciò che abbiamo letto – comprese le cose irrealistiche, fastidiose, illogiche eccetera eccetera – è potenzialmente falso e io ho perso una notte della mia vita a leggere la storia probabilmente falsa di una tizia con evidenti disturbimentali.

(FINE SPOILER)


A quel punto ho scaraventato il libro contro l'armadio e sono andata a farmi una tazza di latte e cereali alle due di notte.


Ci sarebbe ancora così tanto di cui parlare, come la libertà con cui la protagonista assegna l'appellativo di troia a destra e a manca o quanto sia fastidiosamente stupida come una capra, o come in più punti verrebbe da prenderla a sberle, ma la recensione verrebbe di venti pagine oppure una recensione video à la #ilLibrodiMerda di Ilenia Zodiaco.

Per citare l'autrice, volevo descrivere lo schifo.

Credo di esserci riuscita.


Irene