sabato 12 settembre 2015

Vorrei descrivere lo schifo - "Le anatre di Holden sanno dove andare" E. Garuti

Emilia Garuti, Le anatre di Holden sanno dove andare, Giunti, 2015

Vorrei descrivere lo schifo. No, perché davvero, ci tengo. Giusto per dare un'idea.


Pronto? Siete ancora lì? Posso andare avanti? Okay, allora proseguo.


Mi hanno detto che scrivere può aiutarmi a stare meglio. So che è difficile raccontare le cose astratte come l'amore, la fantasia o la sensazione di merdosa smielatezza che si prova in un momento di assoluta pace e che questo è il compito di quei sensibiloni dei poeti. Solo per fare un esperimento. Vediamo se riesco a renderla, l'idea...


Bene,questo era l'inizio del libro. Dopo questa entusiasmante introduzione, prosegue per due pagine e mezzo con un elenco in cui quasi ogni frase comincia con “lo schifo è” al termine del quale la tentazione di chiudere il libro e lanciarlo fuori dalla finestra è tremendamente forte.

Il libro io però l'ho letto tutto e, fidatevi, peggiora.


La trama, in due parole: una ragazza, dopo un tentativo di suicidio, trascorre l'estate post maturità altalenandosi tra la psicologa – che odia – il poltrire a casa osservata dai genitori – che odia – qualche giro in centro con le amiche – che mal sopporta – e una lunga serie di riflessioni su quanto tutto faccia schifo. Finché dalla sua psicologia non conosce un ragazzo, Matteo, che l'aiuta ad aprire gli occhi.


I problemi principali del libro secondo me sono tre.

Primo problema, il più evidente e insindacabile: l'uso smoderato di cliché.

I genitori sono dei borghesi snob che nascondono i problemi sotto il tappeto. Il padre si fa la segretaria (davvero? La segretaria? Ma la trama l'hai stabilita lanciando dei dadi?) e quando la madre lo scopre non divorziano ma fingono che nulla sia accaduto. Il padre si compra un cane che ama più della figlia. I suoi compagni di classe vengono descritti come: “le donne di mondo, i palestrati, i secchioni, i fattoni e gli unici simpatici” che guarda caso sono i suoi amici (che vengono nominati due volte in tutto). Quando vede una ragazza appena più bella di lei è insindacabilmente una troia, una facile. Rimarca il fatto che se una è figa è perché ci è nata ed è uguale a tutte le altre, fatte tutte con la stampo (probabilmente anche loro tutte troie). Tutto ciò che dice di sua mamma è che è una casalinga disperata che non l'ha mai neppure presa in braccio.

L’impressione è di vivere in Flatlandia e che lei sia la sfera che atterra nel mondo bidimensionale, unico personaggio con un certo spessore – ma anche lei non scherza come piattume. L'altro personaggio di una certarilevanza e che non appare come una figurina ritagliata dal libro di un altro è Matteo, ma anche lui viene descritto troppo poco esappiamo giusto che è l'unica persona decente sulla faccia dellaterra.


Il secondo problema è il linguaggio.

Il titolo vi farà facilmente intuire a quale scrittore si ispira la protagonista (ovviamente Salinger).

Il libro ha lo stesso impianto de Il giovane Holden (probabilmente uno dei romanzi preferiti dell'autrice) e più volte appaiono dei cameo nella trama (piuttosto piacevoli, lo ammetto).

L’autrice ha evidentemente voluto imitare l'uso del linguaggio parlato che Salinger ha utilizzato per il suo più celebre romanzo.

Beh,se a Salinger l'operazione è riuscita, a lei evidentemente no. Ci sono intere pagine in cui vorresti metterti le mani tra i capelli.

Io sono veneta e nel linguaggio parlato uso sempre l'articolo davanti al nome proprio femminile. Ma leggerlo su carta è l'equivalente disentire un gesso che stride sulla lavagna (probabilmente un lettore a sud del Po avrebbe bruciato il libro).

Usa frasi alla Federico Moccia (soggetto verbo complemento) che risultano a singhiozzo. Per essere una che più volte ripete di aver fatto il classico (sia l'autrice che la protagonista, quindi non ci sono scuse) e che vuole studiare Lettere all'Università (sia l’autrice che la protagonista, come sopra) meriterebbe una visitina dal signor Cicerone.

Non è l'uso delle parolacce che stona – contestabile ma per me accettabile – è la sintassi, l'uso eccessivo di forme tipiche del parlato ma che su carta danno fastidio, l'abuso di enumerazioni per rimarcare un concetto (vuoi descrivere lo schifo, sì, l’abbiamo capito). C'è un limite al numero di volte in cui puoi cominciare una frase con “ma” e “però”. Tu, cara mia, hai sforato quel limite entro il primo capitolo.

L’intero libro dovrebbe essere il diario che la sua psicologa le consiglia discrivere, ma anche qui alcuni capitoli sono scritti effettivamente come diario, altri sono una cronaca in prima persona presente di ciò che le accade e a meno che lei non vaghi per la città con carta e penna sottomano, l'autrice dovrebbe rivedere le sue scelte stilistiche.


Il terzo problema, che secondo me è il più grave (e su questo non si discute) è la superficialità con cui l'autrice tratta la depressione della protagonista.

Will si lamenta che i suoi l'hanno mandata da una psicologa invece che affrontare i problemi in casa. Il problema è che Will non ha semplicemente raccontato qualche balla ai suoi, saltato qualche giorno di scuola o fumato una canna. Will ha tentato il suicidio. Mandarla da una psicologa è il minimo.

Da molti dei suoi atteggiamenti, sembra che Will abbia la depressione: non vede futuro, è svogliata, passa molto tempo a letto, posticipa qualsiasi decisione.

Poi per due volte le viene un attacco di panico, ma va bene, prendiamo per buono che soffra sia d'ansia sia di depressione. Benché siano due cose diverse non sono incompatibili.

Fin dalle prime pagine del libro ho avuto la sensazione di sapere dove sarebbe andato a parare il libro, e non mi sbagliavo.

La depressione della protagonista viene “guarita” non dal lavoro congiunto di psicologa e medicinali, ma dall'eroe di turno: Matteo, ragazzo che ha visto morire il padre davanti agli occhi ma che non se ne dispiace perché il padre picchiava lui e il fratellino.

Ebbene sì, basta un giro in gelateria, uno all'università, un po' di sms e di uscite in città per curare la depressione della protagonista.

E no, non può essere che la protagonista fosse solo “un po' giù”. Nonpuoi prendere un personaggio, renderlo un potenziale suicida, depresso, con attacchi di panico, e improvvisamente viene guarito in un mese. No. Non puoi farlo.

Non capisco questa nascente passione per i personaggi con disturbi mentali. I disturbi mentali sono seri. Esattamente come sarebbe di cattivo gusto scrivere di una guarigione miracolosa e inspiegabile in un paziente malato di cancro, così lo è per un paziente malato di una malattia mentale.

Quindi i casi sono due: o la protagonista non era effettivamente depressa e tutto il libro era il piagnisteo di un'adolescente viziata, o l'autrice ha trovato più comodo rivestire il libro di temi seri e delicati senza avere la pazienza di informarsi.


Ma tralasciamo tutto ciò e veniamo al finale. Già, perché giunta alla fine, per quanto irrealistico e fastidioso, ero pronta ad accettare il libro come leggibile, se non altro.

Ma l'autrice ha deciso di uccidermi.

Ebbene, finito l'epilogo c'è un apparentemente innocuo PS in corsivo.

(SPOILER)

In questo PS la protagonista rivela di avere un altro disturbo per cui è in cura dalla psicologa, ossia che è una bugiarda patologica,lasciandoti intendere che tutto ciò che abbiamo letto – comprese le cose irrealistiche, fastidiose, illogiche eccetera eccetera – è potenzialmente falso e io ho perso una notte della mia vita a leggere la storia probabilmente falsa di una tizia con evidenti disturbimentali.

(FINE SPOILER)


A quel punto ho scaraventato il libro contro l'armadio e sono andata a farmi una tazza di latte e cereali alle due di notte.


Ci sarebbe ancora così tanto di cui parlare, come la libertà con cui la protagonista assegna l'appellativo di troia a destra e a manca o quanto sia fastidiosamente stupida come una capra, o come in più punti verrebbe da prenderla a sberle, ma la recensione verrebbe di venti pagine oppure una recensione video à la #ilLibrodiMerda di Ilenia Zodiaco.

Per citare l'autrice, volevo descrivere lo schifo.

Credo di esserci riuscita.


Irene

martedì 8 settembre 2015

Noi dello zoo di Londra - "NW" Zadie Smith

Zadie Smith, NW, Mondadori, 2013


Ci sono libri che parlano di persone, libri che parlano di fatti e libri che parlano di ideali.

Questo libro parla di persone, nel modo più assoluto.


I quattro protagonisti del libro sono il centro della narrazione. Le loro storie non sono poi così importanti, tant'è che cominciano in un momento casuale e finiscono in un momento altrettanto casuale. Non esiste neppure un vero arco narrativo, non c'è un'evoluzione lineare, non c'è uno scopo.

Lo scopo – se vogliamo trovarne uno – è mostrare. Come andare allo zoo, ma Zadie Smith non ci mostra animali esotici, bensì quattro bestie che – per le loro coordinate geografiche – sono locali.


Infatti il quinto protagonista del libro è Londra, la Londra dell'autrice, la Londra attuale che lei sente sua, che le appartiene più della Londra sofisticata, della Londra reale, della Londra storica.
La prima descrizione che troviamo – che poi è l'inizio del romanzo – non è di una persona, ma della città:


Il sole gonfio si ferma di fianco ai ripetitori dei cellulari. La vernice anti-effrazione diventa sulfurea sui cancelli delle scuole e sui pali della luce. A Willesden la gente gira scalza, le strade diventano europee, c'è la mania di mangiare all'aperto.


I dettagli che l'autrice sceglie per aprire il romanzo sono significativi e fin dalle prime pagine appare chiaro che i protagonisti saranno come la città che intende descrivere: imperfetti, opachi, ma solidi, reali, quotidiani.


La prima protagonista è Leah e l'episodio che ce la presenta è rappresentativo della sua personalità: una donna le chiede aiuto e lei non esita a darle i soldi che le servono per poi rendersi conto che la donna che ha aiutato è una truffatrice. Questo semplice episodio dà il via ad una serie di moti interiori e di riflessioni nella protagonista che, in un effetto valanga, generano la sua storia. Vengono passati al setaccio il suo rapporto col fidanzato, con la migliore amica, con la madre e in tutti emerge il suo essere incerta, inetta, una persona insicura che appena prova a fare un passo finisce per fallire.

Forse è per questo che di tutti i personaggi Leah – probabilmente la più fastidiosa – è anche la mia preferita. E' quel personaggio che non può piacere, che viene sempre relegato e per questo mi è rimasta particolarmente cara. La sua narrazione è caotica, confusionaria, intramezzata a flussi di coscienza, mentre salta da una terza ad una prima persona senza avvisare e molti probabilmente scoraggiati da questa prima parte, hanno interrotto la lettura, perdendosi il resto del libro.

Una delle frasi che più mi ha colpito è:


Una volta avevano la stessa età. Adesso Leah invecchia in anni canini. I suoi trentacinque sono sette volte quelli di Michel, e sette volte più importanti, così importanti che lui deve continuare a ricordarle la cifra, casomai se la dimenticasse.


Il secondo protagonista, Felix, è il personaggio più staccato dagli altri tre. La sua storia è isolata, tant'è che potrebbe essere rimossa e viene citata solo parzialmente negli altri racconti.

Anche Felix, come Leah, non è un vincente, ma uno pieno di problemi, uno che tende a lasciarsi sopraffare. La differenza sostanziale tra i due è il modo in cui affrontano la vita. La goffaggine di Felix è quasi tenera, divertente, autoironica e lo si vede chiaramente nel modo in cui si rapporta con le donne e col padre, un'ombra che incombe su di lui e che Felix ignora volutamente.


La terza protagonista è forse la più importante: Keisha/Natalie, migliore amica di Leah. E' il personaggio meglio sviluppato, forse quello con cui l'autrice si immedesima di più.

E’ una donna che si è fatta da sola, che sa cosa vuole e che ha fatto di tutto per ottenerlo. E' una vincente, che non ha mai smesso di correre. Non per propria volontà, ma perché cosciente che, se si dovesse fermare, tutto il suo lavoro crollerebbe e lei si ritroverebbe in balia della corrente.

La sua narrazione è la più lunga e il cuore del libro, come se le due che la precedono fossero solo un'introduzione alla vera regina del romanzo.


Il quarto protagonista – Nathan – è solo una fugace apparizione, un osservatore della vera protagonista (infatti la sua parte di narrazione è intrisa della figura di Keisha) e dopo poche pagine si torna alla conclusione, che vede ancora protagonista Keisha/Natalie.


NW non è un libro comune. Non ha una trama, non ha un determinato protagonista, non ha una direzione, non ha una vero inizio o una vera fine.

Zadie Smith ci descrive una realtà che non è la nostra ma che non ci è neppure così lontana.


E' come una visita allo zoo, in cui segui il percorso che più di aggrada, ti soffermi su una gabbia in particolare, ignori l'animale che non ti piace, giri intorno a quello che ti spaventa senza osare guardarlo negli occhi e – quando hai finito la tua visita – te ne vai, tornando alla tua vita, portandoti dietro il ricordo di quegli animali esotici e lontani.


Irene

martedì 1 settembre 2015

L'arte del raccontare a tinte pastello - "I giovani" J.D. Salinger

JD Salinger, I giovani, il Saggiatore, 2015


L'anno scorso, approfittando degli sconti alla Feltrinelli, comprai il cofanetto delle opere complete di Salinger. Inutile dire che andò finito entro un mese.
Poco dopo averlo finito lessi sul giornale che dal 2015 al 2020 sarebbero usciti cinque libri inediti di Salinger – uno all'anno – e potete immaginare la mia gioia.


Ecco, la mia gioia si è dimezzata quando ho visto le dimensioni del primo volume in rapporto al prezzo. Sarò la centesima persona a dirlo, ma 12€ per 68 pagine sono davvero troppi, nonostante la postfazione di Giorgio Vasta (che è l'equivalente della fetta di torta a fine pasto). Ma grazie a dio esistono quei luoghi fatati chiamati “biblioteche” che dispensano libri gratuitamente.

Ma parliamo dei tre racconti contenuti nel libro. Il più bello è senza dubbio il primo, quello poi che dà il titolo alla raccolta (I giovani, per l'appunto).

Leggendo il racconto, fin dalle prime righe, mi aspettavo qualcosa. Forse per il titolo, forse per l'ambientazione, mi aspettavo che nel racconto sarebbe accaduto un evento particolarmente incisivo: un litigio, una dichiarazione, una rissa... qualcosa, insomma.

Alla terza pagina, Edna – la protagonista del racconto – dice:


Ma la festa è ancora giovane!” disse Edna. “E' il clou della serata.”

Il che?”

Il clou della serata. Cioè è ancora presto.”


Ed è quello che pensi leggendo: siamo solo a pagina tre e non è ancora successo nulla di entusiasmante. Edna e Bill stanno parlando senza effettivamente dirsi niente, ma qualcosa accadrà, no? Sono giovani, sono ad una festa, dovrebbero avere il fuoco nelle vene.

Ma niente. Andando avanti le aspettative continuano ad essere deluse, fino al finale, quando la protagonista si ritira – sconfitta e umiliata silenziosamente da una ragazza più bella e più interessante.

Esattamente come noi lettori, Edna rimane delusa dalla serata ed è come se questa delusione colasse, trasudasse dalle parole del racconto.

I giovani non parla di grandi gioie o grandi dolori, non parla di eroi o malvagi. Parla della noia, delle convenzioni sociali, di una ragazza che cerca di rendersi interessante agli occhi di uno sconosciuto mentre questo cerca di scrollarsela di dosso senza avere il coraggio di dirgli apertamente “non mi interessi”.

I giovani parla di aspettative deluse, di una festa che sembra essere sul punto di scoppiare da un momento all'altro ma che in realtà non porta da nessuna parte e che ci riporta a casa amareggiati e forse ci toglie una notte di sonno.

Ed è questa la genialità di questo racconto: il fatto che non accada nulla, ma che le emozioni dei personaggi (il disagio, la vergogna, il fastidio) siano ugualmente trasmesse al lettore in tutta la loro forza. E' come guardare un dipinto a tinte pastello e, quando chiudi gli occhi, vedere ancora i colori impressi nella retina.

E’ forse questo il talento di Salinger: dare voce ai protagonisti che non sono eroi, dare forma alle emozioni trascurate.


Il secondo racconto è forse quello che mi è piaciuto di meno.
Il racconto è – essenzialmente – il dialogo tra una donna e suo fratello. Da una parte abbiamo lui che impone, minaccia, sbraita e ricorre alle mani per far valere le proprie ragioni, nel perfetto stereotipo di maschio alfa che deve farsi rispettare, che comanda a bacchetta le donne della sua famiglia.

Dall’altra parte abbiamo la sorella che attua le strategie che invece vengono insegnate alle bambine: sviare l'argomento, girarci intorno, prendere tempo. In Va' da Eddie, Helen non smette un secondo di muovere le mani, di agghindarsi, di distrarre il fratello con discorsi secondari, con frasi di circostanza che servono solo ad allontanare l'altro interlocutore dal suo scopo.

Nella postfazione, Giorgio Vasta parla dell'importanza del linguaggio in Salinger, del potere della conversazione, di quanto uno scambio di battute possa essere caratteristico di due personaggi e anche questo racconto ne è un perfetto esempio.


Il terzo racconto, Una volta a settimana, vede protagonisti una giovane coppia di sposi. Lui sta per partire per la guerra e si vuole assicurare che la giovane moglie non trascuri l'anziana zia e che la porti al cinema una volta a settimana.

L’attenzione per i dettagli, il modo in cui Salinger ci fa capire la relazione di questa giovane coppia che forse cammina ancora sulle uova, o che non è mai riuscita a trovare la complicità che dovrebbe esserci tra marito e moglie, è secondo me perfettamente esplicata in questa frase:


«Non eri obbligata ad alzarti» le disse.

«Infatti era quello che volevo...»

Erano passati tre anni e non aveva ancora smesso di parlargli in corsivo.

«...non alzarmi!» gli disse.


La seconda parte del racconto vede la conversazione tra il giovane e la zia. Anche qui, il dialogo non porta da nessuna parte, forse perché una metà della conversazione non vuole accettare ciò che l'altra metà le sta dicendo e il tutto si conclude con una usuale amarezza di fondo e una foto strappata in otto e gettata nel cestino.


Sulla postfazione non c'è nulla da dire. Va letta perché da sola vale metà del libro e presenta spunti di riflessione per tutte le opere di Salinger e mi ha aiutato a comprendere meglio la genialità del primo racconto.


In definitiva, sarò la millesima persona a dirlo: leggete il libro, ma non compratelo. Forse prima o poi si degneranno di fare un'edizione economica o un angelo del cielo me ne farà trovare una copia fallata in un mercatino dell'usato. Fino ad allora, esistono le biblioteche: usatele! E con quei 12€ andate a mangiare fuori con gli amici.


Irene