We don’t have a word for the opposite of loneliness, but if we did, I could say that’s what I want in life.
Marina Keegan, The Opposite of Loneliness
Basta leggere la quarta di copertina per sapere cosa aspettarsi da questo libro.
La prima cosa che ci dice è che Marina Keegan, autrice del libro, è stata la migliore laureata a Yale del suo anno e che è spettato a lei l’onore di tenere un discorso, The Opposite of Loneliness, davanti ai suoi compagni. La seconda cosa che ci dicono è che è morta pochi giorni dopo la laurea.
Il libro è una raccolta dei suoi racconti e dei suoi articoli, raccolti e scelti dai suoi genitori con l’aiuto di insegnanti ed amici.
Il libro è ciò che sembra: una sorta di monumento alla figura della scrittrice, una ragazza senza dubbio brillante e con un brillante futuro davanti a sé. E di questo non dubito.
Ma basta questo a fare un buon libro?
Se l’autrice non fosse malauguratamente morta così giovane, il libro sarabbe stato pubblicato in questo modo? E soprattutto, avremmo avuto l’impulso di leggerlo?
Escludiamo tutte le introduzioni e le postfazioni (neppure un’edizione critica dell'Ulisse richiederebbe un simile supporto critico alle spalle) e discutiamo le tre diverse tipologie di opere che ci propone il libro.
The Opposite of Loneliness
La prima cosa che leggiamo di Marina è il suo discorso, lo stesso discorso che l’ha resa famosa anche al di fuori della sua università.The Opposite of Loneliness ha tutto ciò che deve avere il discorso di un valedictorian: è ottimista, fa ragionare, crea empatia con gli ascoltatori. E’ innegabile che la ragazza sapesse parlare bene!
Nel discorso lei discute di cosa significhi far parte di una comunità, come può esserlo un campus universitario e di quanto quegli anni passati a Yale siano stati importanti per lei soprattutto alla luce delle persone conosciute.
E’ bello, e importante, questo desiderio di creare una comunità e non è difficile capire perché abbia avuto tanto successo.
Il linguaggio usato è piano ma non banale. Come suggerisce una sua insegnante nell’introduzione, uno dei pregi di questa scrittrice è che scrive come una della sua età. Sebbene usi un linguaggio ricercato e una sintassi corretta, al lettore risulta scorrevole e naturale, al contrario di alcune prose artificiose che occhieggiano ai romanzi ottocenteschi.
The Opposite of Loneliness ha la forza necessaria a far arrivare le parole dell’autrice oltre i muri della sua università.
I racconti
I racconti hanno molto in comune tra loro, delineano già uno stile abbastanza preciso. Sono quasi tutti ambientati in luoghi comuni, popolati da persone comuni che vivono situazioni comuni. L’intento realista ben si sposa con il linguaggio utilizzato sia dal narratore che dai personaggi.
Le storie sono interessanti, alcune di più altre di meno a seconda del gusto.
Ho trovato particolarmente interessanti due racconti.
Il primo, Reading Aloud, ha una trama e dei personaggi quanto meno singolari. Anna è un ex ballerina in pensione che, annoiata in una casa vuota col marito sempre al lavoro, si dedica ad un’attività di volontariato: legge a voce alta per i ciechi. O meglio, per un cieco, visto che la maggior parte del suo tempo viene dedicato a Sam, un uomo di bell’aspetto che asseconda le sue fisime da ipocondriaca. E forse a causa del disinteresse del marito, Anna comincia a sviluppare una piccola perversione: mentre legge a Sam comincia a spogliarsi fino a rimanere nuda di fronte a lui.
Con premesse simili ha sicuramente catturato il mio interesse l’ho letto tutto d’un fiato fino alla fine. E no, non delude sul finale.
L’altro racconto che voglio segnalare è Hail, Full of Grace. La protagonista torna nel suo paesino per Natale dove ritrova la famiglia, il migliore amico e, suo malgrado, la sua vecchia fiamma. Questa volta però è diverso perché con lei c’è Emma, la neonata che ha appena adottato e che presenterà per la prima volta alla propria famiglia. Il racconto è incentrato per metà sul passato della protagonista e su ciò che le è accaduto e per metà sulle sue paure riguardanti il futuro e l’onere di crescere una bambina da sola. L’introspezione sui personaggi è interessante e mai banale e lo stile, come già detto, è molto piacevola.
Gli altri racconti sono tutti ben scritti senza però essere eccezionali. Forse quello che mi ha colpito di meno (e annoiata di più) è Emerald City, ma è solo una questione di gusto.
In generale i racconti hanno delle ottime basi che, con esercizio e qualche anno per maturare ancora, avrebbero potuto renderla una scrittrice interessante.
Non mi è ancora chiaro cosa siano questi testi: saggi scolastici? Articoli di giornale? Pagine di un blog? Temi?
Non mi è neppure chiaro se la scrittrice avrebbe voluto vederli pubblicati in un libro o se sono stati infilati dentro per fare numero. Ma hanno un fondamentale difetto che li rende insopportabili: l’ego dell’autrice che straripa da ogni parola.
Anche quando il testo tratta argomenti di interesse comune si finisce sempre per parlare dell’autrice. In uno dei testi, Stability in Motion, Marina racconta della propria macchina e di quanto ci fosse legata. In un altro, Why We Care about Whale, parla del perché ci interessa tanto il destino delle balene ma, dopo una carrellata di dati, si finisce a parlare della sua esperienza personale e di un episodio in cui ha assistito allo spiaggiamento di alcune balene. E così via.
L’unico testo in cui non parla di sé, I Kill for Money, è così incomprensibile che ho capito di cosa parlava solo verso la fine.
La sensazione generale è non capire cosa ci si debba aspettare né quale sia l’intento dei testi: far riflettere? Informare? Raccontare una storia?
Ma varrebbe la pena di leggere il libro se l’autrice non fosse morta così giovane?
Sì e no. Il discorso vale la pena. I racconti, sebbene non siano indimenticabili, sono al livello di molti libri pubblicati. La non-fiction può essere saltata in tronco.
Leggendo il libro non ho potuto fare a meno di pensare a ciò che avrebbe potuto scrivere, a cosa sarebbe diventata se non fosse morta. Se sarebbe diventata una grande scrittrice, o una brava giornalista o un’insegnate, oppure se sarebbe finita a lavorare in un ufficio grigio per il resto dei suoi giorni.
Mi piace credere che non sarebbe finita così, che i colori brillanti della copertina del libro siano uno specchio di come sarebbe stato il suo futuro e che, avendo qualche anno in più a disposizione, avrebbe potuto raccogliere e riordinare i suoi racconti e farli leggere al mondo.
Forse mi sarei imbattuta ugualmente in un suo libro. Forse mi sarebbe piaciuto davvero.
Irene